Territorio Visione di Luigi Taglienti a Piacenza
- Alessandra Meldolesi
- 10 feb
- Tempo di lettura: 3 min
Si chiama “Io”, ma mette al centro Piacenza: il ristorante di Luigi Taglienti serve un nuovo menu intitolato “Territorio Visione”, che inquadra la tradizione locale con la lente dello stile.

Sono due anni e mezzo che Luigi Taglienti, chef che ha fatto saltare sulle poltroncine imbottite del Trussardi e del Lume la migliore critica gastronomica italiana, cucina non più a Milano, dove pure vive, ma a Piacenza, città che vanta una lunga storia di cucina gallicizzante, da Georges Cogny, con la sua numerosa progenie, a Filippo Chiappini Dattilo.
Poco distante dal centro storico, le sue colline non sono solo un bellissimo segreto accuratamente taciuto, punteggiato di trattorie rigorose, ma anche un museo di eccellenze agricole e gastronomiche. Ed è proprio per trattorie e produttori che Taglienti si è subito mosso, in modo da contestualizzare la sua personalissima cucina.
“Piacenza mi è sembrata una scena dalle grandi potenzialità, per la quale ho cercato di creare un nuovo linguaggio, volto a comunicare le tipicità a chi arriva da fuori e a farle riscoprire ai locali, che le trovano un po’ rivoluzionate. Quindi ho intrapreso i miei giri per trattorie, che non mi stanco di battere, la ricerca sui fornitori e sui vini insieme alla nuova sommelier Annalisa Granata”, illustra Taglienti. Il risultato è un percorso da 8 o 11 passaggi (con l’alternativa delle 4 corse dalla carta), che lo chef definisce “piuttosto veloci, ritmati, freschi”. Si chiama “Territorio Visione” e sposa al DNA classico, culminante nelle salse, l’intransigenza di una gestualità casalinga trasportata nel fine dining, dai tortelli con la coda alla crema allo Strega della nonna. “Più tutti gli stimoli che raccolgo in giro per il mondo, viaggiando e curando la consulenza in un cinque stelle lituano”.

Il locale, per quanto sia partito senza troppe pretese, non pone limiti al sogno, che anzi circonda di suggestioni, vedi il magnifico museo del design nell’adiacente chiesa sconsacrata di Sant’Agostino, con le statue decapitate dalle truppe napoleoniche, condotto dalla medesima proprietà. “Siamo partiti da un degustazione ‘semplice’, che si è poi evoluto nello Standard focalizzato sulle salse, che abbiamo deciso di valorizzare al massimo, con un’idea anche di comunicazione. Poi un po’ in sordina, attraverso il solo passaparola, abbiamo pensato di offrire uno spunto creativo sul territorio, partendo dal know-how del classico con un’idea nostra, in modo da creare un messaggio che portasse interesse”.
“Non sono arrivato in una città di provincia, con la presunzione di avere successo in modo veloce o di ottenere un posizionamento immediato. Piuttosto ci siamo prefissati di far crescere i ragazzi sul territorio, senza chiederci dove saremmo arrivati. Ed è una cucina molto libera, senza la ricerca esasperata del canone modaiolo. Il pensiero finisce sul piatto in modo istintivo, non troppo sedimentato. Perché il fondo perde luce e già diventa opaco. Può toccare l’amaro o indugiare sull’acido, ma il piatto deve sempre essere buono”. Di fatto è uno stile inconfondibile, spiazzante nelle intuizioni, eppure impeccabile nell’eleganza e travolgente nella sensualità, giocato su grassezze turgide e acidità gagliarde, con attenzione maniacale per le consistenze.

Sono folgoranti i primi assaggi vegetali, dove la profondità concettuale sgrezza i prodotti del territorio con la velocità dell’intuizione. Per esempio la torta fra una pasqualina e un erbazzone, con le foglie di spinaci che testurizzano idealmente la sfoglia, il battuto di alghe per la pseudograssezza, le pomate di agrumi in ricordo di mamma Liguria e la salsa lattica a legare; oppure la brillante verza suzette come una crespella alla riduzione di Malvasia e scaloppa di arancia al Tandori di Marsiglia. E ancora la spiazzante capricciosa di mare agli scampi di Liguria, sulla falsariga dell’insalata con il suo tripudio di salse, e i pisarei e fasö, che esaltano la cremosità originale nella chantilly di borlotti, più il sontuoso foie d’oca avvolto nella lattuga amarotica, gli gnocchetti di frolla al limone e la concentrazione massima di salsa cassoeula.
Il mare scollinando è vicino e così spunta il delizioso millefoglie di ostrica strapazzata, feticcio di Taglienti già finito su un indimenticabile pan brioche, sposato ai cachi con coriandolo e cardamomo.

Per carni la cruda di cavallo e il musetto brasato e glassato alla maniera del maestro Santin, non più di vitello ma di maiale e tuffato nell’Ortrugo al posto dello Champagne, servito con moderna presse di astice.
Il finale non è per la piccola pasticceria, ma per due veli di culatello selezione Luigi Taglienti: oltre l’omaggio al territorio, un accento sulla dolcezza del salume e un effetto palindromo con le prime corse a tendenza dolce.

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